“De l’Atlantique à l’Oural”, dall’Atlantico agli Urali. Nel prendere a prestito l’efficace formula di De Gaulle otteniamo almeno una definizione fisica dell’Europa. Ma è interpretazione tutto sommato moderna, questa. Un commerciante levantino del Trecento o un mercante della Roma imperiale non si sarebbero chiesti in quale continente fossero una volta in Spagna, in Egitto o in India. Ma anche prendendo per buona la definizione gollista, basta un’occhiata ad una cartina geografica per renderci conto di come gli Urali costituiscano discutibile confine ad est, inzeppati come sono tra Caucaso e mar Caspio. Provate a chiedere ad un georgiano o ad un azero se si sentono asiatici e ne ricaverete delle sorprese.
Vabbè, lasciamo stare l’atlante e prendiamo un libro di storia. Anzi, no. Partiamo solo per un attimo da prima, dalla storia che non ci ha lasciato scritti ma solo qualche disegnino rupestre, insomma dalla preistoria. Perché se davvero vogliamo parlare d’Europa sarebbe ingiusto dimenticarci di lui, del nostro bisnonno, dell’uomo di Neandertal. Sarà stato bruttino, potrà non piacere, ma è un fatto: prima che dall’altopiano etiopico arrivassero quei paraculi dei “Sapiens”, l’Homo in Europa era lui. Al punto che ne conserviamo traccia nel nostro DNA. L’ultimo Neandertal nel continente gli studiosi lo individuano a Gibilterra ed è quasi romantico pensare che questo nostro lontano progenitore si sia fermato lì, come non avesse voluto abbandonare quell’ultimo lembo d’Europa, alle porte del Mediterraneo.
Anche se è ancora vaga espressione, è proprio sul Mediterraneo che si specchia la prima idea d’Europa. Sono le ondate colonizzatrici degli antichi Greci a scriverne una prima bozza, tracciando con i loro spostamenti i primi confini di un’unità politica e culturale. Nel V secolo a.C. il greco è la prima lingua autenticamente comune per tanta parte dell’odierna Europa meridionale.
Il Mediterraneo non rappresenta però un limite geografico, al punto che è Roma a farne anche ideologicamente un mare chiuso di sua proprietà, il “Mare Nostrum”. Regolare i conti con Cartagine ci ha fatti europei invece che numidi? E’ interpretazione affascinante ma forse azzardata. Lo abbiamo già detto, un funzionario imperiale a Damasco o in Tunisia si sarebbe sentito come a casa, mentre sul Reno o in Britannia avrebbe di tanto in tanto lanciato qualche parolaccia ai suoi dei.
La caduta dell’impero romano d’Occidente segna così un’importante rimescolata per la nostra improvvisata mappa d’Europa. D’altra parte, quello spostare a Bisanzio la carta d’identità del ‘civis romanus’ non fa altro che ratificare quel che abbiamo già visto: sovrapporre la storia di Roma con quella d’Europa sarebbe esercizio inutile. Anzi, una gran perdita di tempo.
Proviamo invece a rintracciare qualche refolo d’idea d’Europa appena più avanti, quando dal deserto arabico l’Islam arriva ad espandersi su tre continenti nel breve volgere di pochi decenni. Nella prima metà dell’ VIII secolo d.C. la Spagna viene quasi completamente conquistata dalle armate musulmane. Ma ecco che succede qualcosa che provvidenzialmente ci viene in soccorso in questa nostra scombinata caccia al tesoro. Di più, ecco che arriva qualcuno al quale possiamo – non senza qualche forzatura – attribuire l’impegnativo nome di “padre d’Europa”. Avete ben capito di chi parlo: quel Carlo Magno che, prima re dei Franchi e poi dei Longobardi, nella notte di Natale dell’800 diviene Imperator Augustus del Sacro Romano Impero con tanto di investitura papale. I bizantini si incavolarono un po’ perché questa Roma bis e piuttosto vintage non gli garbava per niente, ma tant’è. Un abbozzo d’Europa si andava tracciando proprio nella difesa cristiana del continente dall’espansione islamica.
Anzi, a questo punto può essere curioso rilevare come l’Europa carolingia nasca all’ombra di qualche fake news. Già … è tutto sommato incerta la collocazione di data e luogo della battaglia di Poitiers combattuta da Carlo Martello, il nonno di Carletto nostro, che viene consegnata dalla storiografia come decisiva nell’arrestare l’avanzata araba. Ma prendiamola pure per buona, che mica siamo qui a pretendere di riscriverla la storia. Lasciatemi però almeno precisare che la ‘Chanson de Roland’ , il poema che celebra il sacrificio della retroguardia franca al valico di Roncisvalle, se la prende con i saraceni quando in realtà sono stati i baschi a fare a fette il Prode Paladino e i suoi amici.
Nei secoli che seguono, è ancora lo scontro tra gli eserciti della Croce e della Mezzaluna a narrare un abbozzo di storia d’Europa. Anzi, al tramonto dell’XI secolo, la vittoriosa prima Crociata segna – con il ritorno di Gerusalemme alla cristianità – quell’unità d’armi che per la prima volta traccia un comune sentire di cavalieri che accorrevano da ogni parte dell’Europa feudale. Prendetela come qualcosa appena un attimo più di una boutade, ma è proprio nella loro prima avventura coloniale che gli europei si presentano sotto le stesse bandiere.
La scoperta dell’America e le altre rivelazioni geografiche dovute alle navigazioni transoceaniche otterranno poi subito un merito (o una colpa, fate voi): quello di far aggiungere l’aggettivo “vecchio” al nostro continente. Come a significarne una centralità planetaria, dall’Europa partono le navi che ridisegnano la geografia del mondo.
Riforma, Controriforma, Controcontroriforma, controcontrocontro, ah no basta così … il Continente si spacca con le guerre di religione. Martin Lutero, attaccando le sue 95 tesi sulla porta della Chiesa di Wittenberg, ci fa incidentalmente capire due cose: con l’invenzione della stampa a caratteri mobili e con l’uso del latino gli europei – almeno lo strato più colto di loro – posseggono una lingua e una scrittura comuni. Peccato che poi si scannino l’un l’altro, fratelli e nemici nella stessa fede cristiana.
Toccherà al Settecento, al secolo dei lumi, provare a rimettere insieme le disordinate fila di un’Europa che – fra guerre e pestilenze – vede ribaltare secolari equilibri sociali. Mentre Parigi si accende di Libertè, Egalitè e Fraternitè, in Inghilterra la Rivoluzione conosce gli accenti nuovi dell’industria.
Giusto mille anni dopo Carlo Magno, arriva un francese , anzi un corso nato quando quell’isola era ancora genovese, per suscitare un’idea d’Europa. Significativamente, anche Napoleone vorrà incoronarsi Imperatore con il placet pontificio, anche se stavolta non sarà lui ad andare a Roma ma toccherà al Papa farsi una promenade fino a Parigi. Una volta a Notre Dame, Pio VII non ebbe neanche la soddisfazione di poggiare la corona sulla capoccia di Napoleone che per carità guai a chi gliela tocca e il resto lo sapete.
Poi è successo un quarantotto e sapete anche questo, eppure in quell’anno rimasto proverbiale c’è qualcosa che unisce gli europei. La richiesta di Costituzione e di maggiori libertà è più o meno la stessa dalla Sicilia a Madrid, da Venezia a Budapest fino a Vienna. Fermiamoci un momento qui, nel cuore dell’Impero d’Asburgo. Perché dopo aver fermato il turco alle sue porte, è l’Austria che contiene in nuce quell’idea di Europa transnazionale che in questa veloce carrellata di accadimenti andiamo disordinatamente cercando. All’ombra della bandiera degli Asburgo-Lorena si parla tedesco, ungherese, polacco, romeno, italiano, serbo e se mi fermo qui è solo perché temo di dimenticare qualcuna delle tante lingue di questo variegato mosaico di etnie. E’ anzi interessante rilevare come questa impalcatura sovranazionale riesca a resistere nell’ Ottocento Sturm und Drang delle passioni romantiche, fino a frantumarsi sui campi della Grande Guerra.
Qualcuno per il 1914 parla di “suicidio d’Europa” ed anzi allunga fino al 1945 l’insanguinato sudario del dissolvimento del primato del Vecchio Continente sulla scena mondiale. Eppure, è proprio tra le pagine più cupe del Secolo Breve che è lecito rintracciare un più compiuto maturo disegno di unificazione europea. Parte da una piccola isola del Mediterraneo una scintilla di speranza, comincia da Ventotene il sogno di un’Europa libera e unita. Se ne fanno interpreti dei giovani confinati per la loro opposizione al fascismo, in quelle carceri divenute poi autentiche palestre di democrazia partecipata. I nomi li conoscete: sono quelli di Altiero Spinelli, di Ernesto Rossi, di Eugenio Colorni, di tutti coloro che hanno partecipato alla stesura di quello che è passato alla storia come il “Manifesto di Ventotene”. Ad accrescerne l’epocale significato, va sottolineato poi come sia stato decisivo per la sua diffusione il contributo delle donne che facevano la spola tra l’isola e il continente, sfidando con coraggio i controlli polizieschi. Il fatto che siano stati per primi degli italiani ad aver prefigurato un’organica unità europea, oltre a renderci orgogliosi di tanto contributo, legittima poi la scelta di aver tenuto a Roma la firma dei primi Trattati comunitari.
Ed ora chiedo scusa, perché mi rendo conto di aver abbandonato un po’ quel tono scherzoso che avevo inizialmente intrapreso in questa breve strampalata storia dell’idea d’Europa. Gli è che le cose si sono fatte più serie, nel misurarci con le preoccupazioni dell’oggi. Allora meglio chiuderla qui, prima che il pessimismo della ragione finisca per travolgere la residua speranza di un’Europa più unita e più forte. Meglio tendere l’orecchio ad ascoltare il discorso di Luigi Einaudi all’Assemblea Costituente: “La vera indipendenza dei popoli non consiste nelle armi, nelle barriere doganali, nella limitazione dei sistemi ferroviari, fluviali, portuali, elettrici e simili al territorio nazionale, bensì nella scuola, nelle arti, nei costumi, nelle istituzioni culturali, in tutto ciò che dà vita allo spirito e che fa sì che ogni popolo sappia contribuire in qualcosa alla vita spirituale degli altri popoli.”
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