Allora, mettiamoci subito d’accordo. Se intendiamo parlare di turismo, proviamo a definirlo prima di tutto. Ci viene così in soccorso l’Enciclopedia Treccani:
“Il turismo è il trasferimento temporaneo di persone dalla località di abituale residenza ad altra località per fini di svago, riposo, cultura, curiosità, cura, sport ecc.”
Fermiamoci qui, perché una definizione così estesa rischia di farci cappottare in parcheggio, prima ancora di metterci in moto per questa strampalata storia del turismo. Escludiamo allora quegli spostamenti che hanno caratterizzato la storia dell’uomo dall’inizio, da quando un nostro lontano progenitore ha deciso di lasciare l’altopiano etiopico. L’Homo Sapiens si è mosso per necessità e certo anche per curiosità, ma ogni volta lasciando dietro di sé quell’ “abituale residenza” che dice la Treccani. Restringiamo quindi ogni possibile “campo largo” per venire a chi ha fatto il turista per “gusto”, per il piacere di vedere cose nuove e magari per riportare a casa i suoi appunti di viaggio. Il primo nome che viene è allora quello di Erodoto.
Erodoto, il primo turista
Cicerone lo definisce come “il padre della storia” e guai a dar torto a quel chiacchierone d’un ciociaro, ma Erodoto è stato anche il primo turista. (Che poi, a pensarci bene, ogni viaggio turistico scrive una storia … non è vero?) Erodoto nasce nel 480qualcosa a.C, da famiglia aristocratica. Dimostrando da subito che viaggiare costa, amici miei. Ha visitato la maggior parte dei paesi mediterranei, sostando in special modo in Egitto. Le sue “Storie” costituiscono non solo la pietra miliare della moderna storiografia, ma in qualche modo anche la prima guida di viaggio, una sorta di Lonely Planet ‘ante litteram’.
Il turismo nell’antica Roma
Ma è con Roma che si inizia davvero a parlare di vacanze. Nessun ricco patrizio si sarebbe infatti privato di una bella villa fuori dall’Urbe, ad esempio ad Anzio o Cuma sul litorale tirrenico ma anche Rimini (Ariminum), almeno per quelli disposti a sobbarcarsi una settimana di carro sulla Flaminia.
Il turismo come pellegrinaggio
È con il Cristianesimo e poi con Maometto che il turismo assume una valenza religiosa. A partire dall’VIII secolo il pellegrino che si recava verso il Santo Sepolcro o la Ka’bah sapeva di incontrare ladri e assassini lungo il cammino, ma lungo l’impervia strada sapeva anche di trovare locande e punti di ristoro. Possiamo anzi dire che con i pellegrinaggi nasce – anche se in modo certo primordiale – il business del turismo.
Le Grand Tour
È nel Settecento, nel secolo dei lumi, che il turismo conosce una sua epocale evoluzione. Pur rimanendo fenomeno di elite, riservato all’aristocrazia più colta, “Le Grand Tour” ha rappresentato per centinaia di giovani della nobiltà europea un motivo per conoscere Paesi e culture differenti dalla propria d’origine. Non vi sorprenderà sapere che la meta preferita è stata da subito l’Italia, per la ricchezza dei suoi tesori d’arte, per la millenaria storia, per la bellezza dei paesaggi, per la bontà del cibo e per il clima mite. Insomma, un autentico Paradiso per i rampolli delle buone famiglie che lasciavano il grigiore delle campagne inglesi o della Renania. Quanto durava il “Grand Tour”? Non c’era una fine predeterminata, diciamo che la pacchia terminava quando il ragazzo finiva i soldi. Un po’ come certe nostre vacanze adolescenziali con l’Interrail, insomma.
La prima agenzia di viaggi
Il turismo organizzato, nella sua più moderna accezione, prende così forma in Inghilterra. Già alla fine del Seicento, intorno alle terme di Bath – nei pressi di Londra – si forma una vera e propria città con tanto di teatri, ristoranti e caffé. La nascita del turismo balneare è più avanti, nell’Ottocento. Il turismo è diventato ormai fenomeno borghese, dunque più esteso. Brighton diviene meta dei bagni per la middleclass londinese, mentre viene allestito il primo viaggio organizzato da un’agenzia.
Luglio 1841: la “Thomas Cook Group” (dal nome del suo ideatore) al prezzo di uno scellino porta 570 turisti da Leicester a Loughborough (e ritorno, naturalmente). Nel prezzo ci sono i pasti, uno spettacolo di gran gala e il biglietto del treno. Già, il treno. Si fanno più rapidi gli spostamenti ed è del tutto conseguente che aumenti esponenzialmente il numero dei turisti. Non solo, anche le distanze si fanno più praticabili e alla fine del secolo inizia il suo leggendario servizio l’Orient Express, capace di portare il viaggiatore da Parigi a Costantinopoli, con le sue eleganti carrozze cariche di lusso e di misteri. Se le guerre timbrano ferro e sangue il Vecchio Continente per tutta la prima metà del Novecento, negli Stati Uniti il ‘secolo breve’ rappresenta il decollo definitivo dell’industria alberghiera, anche grazie alla nascita del “turismo business“, con strutture capaci di ospitare convention, riunioni, concerti. Anche casinò, come nello stato del Nevada e ad Atlantic City nell’East Coast. Nel dopoguerra, mentre l’aereo cancella le distanze, si fa largo il concetto di “turismo di massa”.
Il “turismo di massa”
E veniamo dunque all’oggi, o meglio al quasi-oggi, perché anche il fenomeno del turismo di massa conosce differenti tempi e accenti geografici. Se serve come esempio, mentre gli operai della Volkswagen riempivano le spiagge romagnole negli anni ’60, per un impiegato italiano un viaggio a Venezia era roba da luna di miele con tanto di gondola souvenir da poggiare al ritorno sulla tv bianco e nero presa con le cambiali. A far da volano ad un’estensione generalizzata all’accesso ai viaggi turistici, hanno contribuito poi in modo determinante le giovani generazioni. L’anno sabbatico al termine del college ha significato visitare l’Europa per milioni di studenti nordamericani, al punto che forse il maggio del ’68 parigino arriva anche grazie all’apporto delle esperienze condivise con i ragazzi reduci dalle rivolte studentesche di Berkeley. Per rimanere a casa nostra, la già citata Interrail e i biglietti ferroviari BIGE hanno permesso a tantissimi giovani italiani di viaggiare in tutta libertà. Se tutto sommato il turismo di massa è stato indice di un generale miglioramento delle condizioni di vita, i viaggi aerei low cost intervenuti negli ultimi decenni hanno quindi reso accessibili al turismo le più remote località del globo.
Concludendo…
Ma va tutto bene quindi? Il turismo di massa è qualcosa che non va disciplinato perché è un frutto del progresso nei trasporti, nelle capacità ricettive alberghiere e della ristorazione? Ha senso mettere dei paletti ad un fenomeno collettivo che porta a tanti innegabili vantaggi etici, sociali e culturali?
Nello speciale Turismo & Territorio che andiamo in queste settimane producendo su radio CommCode23, intervengono tante autorevoli voci su queste complesse tematiche. Io sommessamente aggiungo che occorre ripensare il turismo senza smarrire quel principio ispiratore dell’economia circolare che resta il leit motiv della nostra iniziativa editoriale e della nostra programmazione radiofonica. La moltiplicazione delle presenze turistiche ha ormai assunto un impatto sulle città d’arte che rischia di depauperare quei luoghi, invece che arricchirli. Ma il problema si pone anche altrove. Un esempio per tutti: oggi programmare una vacanza che ti porta sul tetto del mondo costa 25mila dollari. Tanto costa salire sull’Everest su comodi camminamenti già predisposti e mandare un selfie da lassù agli amici di Facebook. Il guaio è che quella montagna va accumulando tonnellate di rifiuti lasciati lì da questi turisti. Proviamo a ripensare allora ai nostri spostamenti per svago mettendo nel bilancio anche la nostra ‘carbon footprint’, l’impronta ecologica che lasciamo nei nostri viaggi e nella nostra permanenza. Gli stessi operatori turistici sono chiamati ad un’offerta sostenibile delle loro strutture e anche qui provo a spiegarmi con un esempio: l’innalzamento delle temperature sta determinando una drastica diminuzione della neve e le località che hanno da sempre legato la loro immagine agli sport invernali vanno ovviando al problema con un esponenziale ricorso alla neve artificiale. Ma in questo modo si consumano quantità enormi di energia e di acqua dolce, al punto che questi impianti – e qui parlo solo di questi nostri, quelli italiani insomma – consumano quanto una città come Milano. Insomma, per ovviare all’assenza di neve finiamo per renderla ancora più rara.
Chiudo con un’opposta esperienza, a dimostrare che si può pensare ad un futuro più attento ai consumi e all’ambiente. Dopo altre località in Svezia e Norvegia, a Stoccolma è stata aperta la sesta pista di sci … senza neve. Proprio così. 500 metri di materiale sintetico realizzato con prodotto sostenibile e riciclato. Un progetto visionario, certo. Qualcuno penserà che sia difficile portarlo dentro i nostri confini. E se vi dicessi che lo ha progettato e prodotto un’azienda di Bergamo?